di Giorgio Cimbrico
A Shanghai 8,56 in condizioni difficili (pioggia, umidità forte) per piegare il povero Shi Yuhao, 8,43 prima che il cinese, due pollici dal record nazionale, fosse costretto a lasciare la pedana in barella per un atterraggio fatale. Luvo Manyonga è già su alte frequenze: lo aveva dimostrato in patria e a Gold Coast, 8,41 per conquistare il titolo ai Giochi del Commonwealth contenendo l’assalto dell’ennesimo “canguro” Henry Frayne, 8,33. Il 31 maggio sarà in gara al Golden Gala Pietro Mennea dove è a rischio il record del meeting di Dwight Phillips (8,61 nel 2009).
“Sono sempre più convinto di poter arrivare al record del mondo, di diventare il primo uomo ad atterrare a nove metri. C’è qualcosa di speciale nelle mie gambe e credo anche sia venuto il momento in cui le luci debbano lasciare la pista e andare ad illuminare quel che capita sulle pedane”: confessa il sudafricano, venuto al mondo all’inizio dell’anno del Grande Prodigio, la finale mondiale di Tokyo ’91: Mike Powell 8,95, Carl Lewis 8,91 ventoso e 8,87 regolare. Beamon battuto dopo quasi un quarto di secolo di attesa.
Luvo oggi è a 8,65, ai margini dei dieci più “lunghi” di sempre, è campione mondiale e del vecchio Impero, vicecampione olimpico, vicecampione al coperto, battuto da un altro protagonista del Golden Gala, Juan Miguel Echevarria, vent’anni nell’agosto che verrà, un’altra perla trovata nell’ostrica di Cuba. A Birmingham, una sfida elettrica: Echevarria 8,46, Manyonga 8,44, Marquis Dendy 8,42.
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UN RAGAZZO DEL 1991 - Luvo ha una storia che merita di esser raccontata, lasciando la parola a chi gli ha dato una mano. “Se sei pronto a percorrere una strada, sarò al tuo fianco, gli ho detto, ma intanto sapevo che ci sarebbe voluta la saggezza di Salomone e la pazienza di Giobbe”: John McGrath, irlandese grande e grosso, ex-strongest man che piegava sbarre di acciaio e spezzava catene in giro per il mondo, ha preso sotto le robuste ali un tossicodipendente di Mbekweni, la “township” di Paarl, Provincia del Capo. La strana coppia, roba da film di Danny Boyle, ha funzionato.
“Sono nato nel ’91, l’anno del record del modo di Mike Powell: lo considero un segno del destino. Toccherà a me batterlo. Quel record mi sta chiamando e io sono affamato”: chi esce dal buio della notte, chi percorre i sentieri della redenzione, sente di avere dentro di sé la Forza. È il caso di questo xhosa, come Nelson Mandela, cresciuto in una delle tante “township” dove miseria, violenza e droga miscelano un cocktail micidiale. Lui, come molti amici suoi, era un consumatore di cristalli di amfetamina: in Sudafrica lo chiamano tik. Nel 2012, diciotto mesi di squalifica: “L’unica cosa che riuscii a dire fu che lo facevo per vizio, non per migliorare le mie prestazioni”.
Né facile né semplice anche la vita di John McGrath che, nell’ordine, soffre di bullismo a scuola (“mi spegnevano le cicche addosso”), si ribella, diventa un esperto di arti marziali (tra i suoi guru, Do Joo Nim, maestro di Bruce Lee), diventa canottiere (“vogavo con tipi destinati a diventare avvocati, ingegneri”), finisce per occuparsi di sbarre e catene al Luna Park di Coney Island e, dopo lungo girovagare, accetta un posto da spazzino a Waterford: uno spazzino alto 2,00 per 120 chili.
In Sudafrica John arriva per caso: una vacanza con una ragazza. Non torna indietro, mette su una palestra a Paarl ed è lì che sente parlare di Luvo che nel frattempo aveva vinto i Mondiali juniores 2010, era finito quinto ai Mondiali di Daegu e aveva messo assieme una discreta somma che avrebbe potuto far comodo: a casa si andava avanti solo con i guadagni di mamma Joyce, domestica. Invece, tutto buttato. Capita a chi finisce in quel giro. “Ho sentito parlare di Luvo, l’ho conosciuto, gli ho parlato chiaro e ho subito capito che non sarebbe stato facile”, racconta John che chiede un incontro con i dirigenti della South African Sport Confederation. “Darei volentieri una mano perché Manyonga si rimetta in piedi”, dico. E quelli: “Non ci pensi nemmeno, e in ogni caso è squalificato”. “Credo che da quelle parti non abbiano mai sentito un fuck you più forte”. Gli dà una mano il pastore (di anime) Eugene Maqwelen, che conosce bene la “township”, i meccanismi che la governano, la gente.
John sa allenare la forza, capisce di preparazione fisica, mastica qualcosa di dietetica ma di tecnica è a digiuno. “Non capivo niente neanche di scarpe: ne ho regalato un paio a Luvo ma non erano da salto in lungo. E lui ha saltato 8,10. Comunque, così non potevamo andare avanti”. E così entra in scena Mario Smith, che in realtà rientra, perché aveva allenato il giovanotto agli esordi. Smith muore quattro anni fa in un incidente stradale proprio mentre va ad allenare Manyonga: lo shock e il dolore sono devastanti. Ma McGrath non è un tipo che si arrende: riesce a far accettare il suo protetto all’High Performance Center di Pretoria che fa un grosso affare. “Ho ritrovato la speranza e sono pronto ad andare lontano”.
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