di Giorgio Cimbrico
L’unicità dei fratelli Harting è nel passaggio di consegne. A Londra, oro a Harting; a Rio oro a Harting. Cambia solo il nome: Robert e Christoph. Se Mirone fosse ancora vivo, li interpellerebbe per raddoppiare la statua. Titolo: i Discoboli. Da decidere se metterli uno di fronte all’altro: in questo caso, passando dal marmo al bronzo, i Bronzi di Germania.
Gli Harting hanno fisici bestiali, da Thor, il dio con il martellone: Christoph, che è il più giovane (27 anni) è il più alto, 2,07; Robert, che è il più anziano, 33, è un po’ più basso, si fa per dire, 2,01. Il peso varia dai 127 ai 120 kg: massa grassa non eccessiva. Normale sia così: vengono da Cottbus, Brandeburgo, la regione che alimentò le fanterie di Federico il Grande, Fritz der Grosse, che disponeva di reggimenti di granatieri giganteschi, i suoi amati “giocattoli”. Loro sono gli eredi: cresciuti in una famiglia dove scagliare attrezzi era una consuetudine praticata sia da mamma che da papà, discreti lanciatori di peso al tempo della Ddr.
Non è la prima volta che nati nello stesso ambito famigliare lasciano profondi segni olimpici (le sorelle ucraine Tamara e Irina Press conquistarono il successo nel peso e negli 80hs a Roma ’60, nel disco e nel pentathlon a Tokyo ’64), ma gli Harting hanno promosso qualcosa in più: la legge della successione nella stessa specialità. Mai registrata prima di loro.
Fratelli, ma diversi, perlomeno sotto il profilo emozionale. Quando a Berlino 2009 Robert mise le mani XXXL sul titolo mondiale, si trasformò, a parte il colore della pelle, in Hulk: maglietta lacerata per la gioia dei fotografi che seguivano la corsa pazza del gigantone. Quell’immagine avrebbe guadagnato spazio su carta e in rete.
A Rio, dopo la più clamorosa delle vittorie, maturata all’ultimo lancio e accompagnata dal record personale (fatto assai poco frequente in un appuntamento globale e rovente), chissà cosa combinerà l’ispettore di polizia Christoph, è la domanda che ronza. Non combina niente: sale sul podio, si inchina leggermente ai quattro punti cardinali come facevano i domatori di leoni o i prestigiatori in marsina, accenna un sorrisino, non mostra particolare commozione quando giunge il momento dell'Inno Nazionale ed è tutto. Si alza un venticello critico: troppo poco partecipe, il giovanotto. Ma il soffio della polemica non si era levato anche per la maglietta fatta a brani?
Val la pena rivivere le ultime battute di Rio, i momenti in cui Piotr Malachowski capisce che la sua nemesi si chiama Harting. Non c’è Robert, più volte giustiziere del polaccone. Per Piotr sembra fatta: è in testa dall’inizio - 67,32 e 67,55 - e di solito le finali del disco vanno in calando, ma qui succede il contrario. L’estone Martin Kupper sale a 66,58, l’altro tedesco Daniel Jasinski a 67,05. Christoph, a questo punto, con 66,34, è fuori dal podio. Le ali da albatros si spiegano e la destra spinge il disco verso un lungo volo: 68,37, record personale al momento più giusto. All’ultimo lancio. Malachowski, incoraggiato da un parterre de roi (Anitona Wlodarczyk, Tomasz Majewski), piomba nella tenebra ma in quel buio qualcosa di chiaro riesce a inquadrarlo: Berlino, Mondali 2009, in testa c’è lui e Harting I, Robert, all’ultimo lancio spara a 69,43, record personale, sbattendolo al suolo come Foreman davanti ad Ali a Kinshasa. Prima di agganciarsi con le mani alla rete, come un orso catturato, Pietrone fa sfarfallare il disco sino a poco più di 65. Non c’era Robert, che al rientro da un periodo tribolato, era andato fuori in qualificazione per poco più di mezzo metro. Ma c’era Christoph: “Se non ci riesco io, ci pensa mio fratello”. Fatto.
Quest’anno Robert Hulk non ha fatto meglio di 63,67, Christoph si è spinto sino a 67,59. Restando in Europa, a un metro e mezzo dal lituano, campione del mondo, Andrius Gudzius, 69,13, e a un metro abbondante dal progreditissimo austriaco Lukas Weisshaidinger, due centimetri dai 69.
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